Da Ronchi dei Legionari a Staranzano


Il percorso inizia dal centro di Ronchi, nei pressi del museo archeologico per raggiungere un altro sito archeologico, quello corrispondente alla villa romana detta “della liberta Peticia”, ai margini dell’abitato di Staranzano. Tra i due luoghi, lungo il tragitto, possiamo vedere gli ultimi elementi superstiti del paesaggio agrario che caratterizzava questa zona fino a qualche decennio fa: i muri in pietra che recingevano le braide dei complessi rurali, gli arbusti lungo le carrarecce, gli alberi isolati nel disegno fondiario.

La nostra partenza si trova ai margini di un’area oggi occupata da strutture sportive, ricreative e scolastiche, un tempo interamente agricola: si tratta della cosiddetta palmada, zona attorno a cui l’insediamento abitativo si è sviluppato secolo con alcuni complessi rurali piuttosto consistenti fino al XVIII, in seguito con architettura prevalentemente residenziale.

Sulla vicina piazza Unità si affacciano la neoclassica villa Vicentini Miniussi, del 1835, oggi sede del Consorzio Culturale del Monfalconese e la villa Carlo, tipico esempio di architettura borghese del XIX secolo, attualmente situata in un contesto molto manomesso. Il lato nord della piazza è chiuso dalla palazzina municipale, costruita nel 1924 nello stile “neo-italico” frequentissimo nell’architettura locale di quegli anni. Immediatamente dietro ad esso, lungo via Roma, troviamo il complesso di villa Blasig, esteso con un giardino molto ben curato e alcuni fabbricati di servizio a fianco di un palazzo di volumetria compatta risalente ai primi anni dell’Ottocento.

Sempre dietro al Municipio, ma sull’altro lato (piazza Pertini) vediamo pure un fabbricato rurale, ristrutturato per ospitare la sede del Museo Archeologico.

Il Museo Archeologico conserva le testimonianze di una villa rustica di epoca romana rinvenuta casualmente nel 1987 immediatamente all’esterno dell’angolo NE del comprensorio aeroportuale. Gli scavi, protratti per quattro anni, portarono alla luce circa 600 mq di superficie costruita, estesa in buona parte anche all’interno dell’area oggi dell’aeroporto. Le strutture scoperte documentano che la villa fu abitata per un periodo piuttosto lungo, compreso tra la metà del I sec. a.C. ed il III sec. d.C. e che in tali anni essa fu più volte ristrutturata. Durante una prima fase il complesso presentava la tipica pianta ad “U”, con una serie di stanze disposte attorno a un cortile, secondo il modello più diffuso in quell’epoca nell’area nord-orientale. A partire dal I sec. d.C., alcune riedificazioni ne modificarono in parte l’assetto, apparentemente senza seguire uno schema preciso, finchè nel secolo successivo tra la fine del II e l’inizio del III sec. d.C. un incendio determinò l’abbandono del sito. In seguito altre profonde trasformazioni portarono a un cambiamento di destinazione d’uso del settore SO, che passò dall’utilizzo residenziale a quello rustico.

Nei secoli, anche altre aree del territorio di Ronchi fecero emergere testimonianze di epoca romana: tra tutte, in località Sochet verso la fine del XVIII secolo vennero portati alla luce dei grossi massi di pietra squadrata, identificati da molti come i resti di un grandioso ponte. Ciò fu ritenuto come un’ulteriore prova che il fiume Isonzo nell’antichità non scorresse sul corso attuale, bensì a ridosso della pendice carsica, su un tracciato abbandonato dopo ingenti inondazioni verso il VI secolo d.C.. Tale tesi è ancora molto dibattuta e si pone in contrapposizione a quella secondo cui l’Isonzo scorresse in direzione Sdobba anche in epoca romana, come sarebbe stato confermato dai conci ritrovati nel 1978 nel letto del fiume nei pressi di San Canzian.

A Ronchi si trovano anche altre ville, in massima parte tardo-ottocentesche e non tutte in buono stato di conservazione. Tra le altre, si cita la villa appartenuta all’ammiraglio von Hinke, oggi totalmente nascosta dal ricco parco ormai inselvatichito (via D’Annunzio, in direzione est). A sud (via XXIV maggio) si trova invece il vasto complesso settecentesco dei de Dottori, incentrato su un palazzo affacciato su strada e una serie di cortili e braide recintate dai tipici muri in pietra.

Un tratto del recinto di questa braida e altri mureti in pietra ci accompagnano nel tratto di percorso che uscendo dall’abitato si dirige nelle campagne a sud-ovest, oltre la strada statale, verso Staranzano. Questi muri, ricorrenti non solo a Ronchi, ma in tutti i paesi del territorio monfalconese, sono costituiti da blocchi di pietra legati con poca malta, alti dai due ai tre metri, talvolta coronati da un corso di pietre disposte a cuspide o protetti da tegole; solamente i tratti lungo le strade centrali degli abitati sono, sporadicamente, intonacati. Il muro della braida de Dottori presenta in più la caratteristica di avere a coronamento una sorta di merlatura formata da una serie di torrette sormontate da un concio piramidale: voci unanimemente riconosciute identificano alcune di queste pietre con dei conci tratti del ponte romano nei pressi di Selz (in loc. Sochet), rinvenuto in più momenti proprio in una tenuta di questa famiglia.

Si procede lungo la stessa via XXIV maggio fino ai passaggi a livello sulla Venezia- Trieste e, immediatamente a destra, sul raccordo ferroviario che portava ai cantieri navali di Panzano. Svoltiamo ancora a destra e ci troviamo su una carrareccia che si inoltra attraverso dei campi regolari, affiancata da arbusti di sambuco, acacia, rovi e da fossi o stretti canali di bonifica. Giungiamo in via delle Volpi, toponimo che forse indica un tipo di fauna oggi non più così frequente in questa zona.

Alla fine di via delle Volpi, entrati in territorio comunale di Staranzano, si supera un canale di bonifica (ultima parte del canale secondario di San Piero, vedi percorso 3) e si giunge in breve, lungo via de Amicis, al sito di una villa romana, nota come la villa della liberta Peticia, oggi in territorio interamente urbanizzato.

Si tratta di una delle ville dislocate lungo la via consolare che congiungeva Aquileia a Tergeste.

Gli scavi effettuati nel 1955 e negli anni Ottanta ne hanno messo in luce la parte sud orientale, in cui sono riconoscibili tre fasi distinte di costruzione. La prima fase, databile alla seconda metà del I secolo a.C., consiste in tre ambienti contigui affacciati su uno spazio aperto (è la parte più a est). La muratura perimetrale, in ciottoli di fiume, è rafforzata esternamente da pilastri angolari, mentre l’interno, ancora in buono stato, presenta un pavimento in signino, ossia un battuto di frammenti calcarei e di malta, lisciato superiormente e decorato da inserti volutamente casuali di sezioni di ciottoli e pietre colorate. In una seconda fase, nella prima metà del I secolo d.C., il primo ambiente fu ampliato mediante lo spostamento del muro perimetrale più a sud; il nuovo muro fu costruito in ciottoli con frammenti di laterizi; le parti nuove di pavimento furono invece realizzate in cubetti di cotto e, in corrispondenza della rasatura del muro precedente, in mosaico bianco e nero. Il mosaico bianco e nero si dispone secondo uno disegno a “U”, che racchiude un decoro centrale a scacchiera, secondo lo schema del triclinium: è ipotizzabile dunque che questa stanza venisse utilizzata come sala da pranzo, in cui i romani mangiavano distesi sui triclini, appunto, appoggiati su un gomito. Alla stessa fase si fanno risalire pure l’ampliamento del cortile, ripavimentato a cubetti, e la ripavimentazione dell’ultimo ambiente a est, a sua volta ornato da una piccola scacchiera centrale a mosaico

In una terza fase di lavori il primo ambiente fu suddiviso con delle tramezzature e l’ingresso rinforzato da una nuova soglia, di cui è individuabile l’incasso per la porta. L’accesso a questo ambiente dal vano adiacente era mediato probabilmente da una tenda (aulaeum), come si dedurrebbe dal plinto fornito di incasso per palo, sostegno appunto per il drappo.

Il rinvenimento, nel 1955, di una lapide con epigrafe con cui la liberta Peticia dedicava il luogo alla Bona Dea, ha fatto presumere che l’ambiente quadripartito fosse un sacello. La datazione dell’epigrafe al I secolo a.C. indica tuttavia che il luogo fosse votato a quel culto fin dalle sue origini e che fin dalle origini la villa e la sua tenuta fossero proprietà della gens Peticia, già nota a quei tempi nella X Regio.