La memoria della tratta
I trentenni probabilmente non hanno mai sentito parlare delle copiose pesche che si svolgevano fino a qualche decennio fa, l'ultimo mese dell'anno, nel golfo di Panzano; i quarantenni hanno un vago ricordo riguardo ai discorsi su tale tradizione; i cinquantenni rammentano con nostalgia quello che era il momento più importante per l'economia ittica locale e che ora è principalmente un aspetto del passato di cui ricercare le origini, le motivazioni dello sviluppo e la definitiva scomparsa non si sa bene quando.Ecco nascere la necessità di ritrovare tasselli di memoria che permettano di non far dimenticare una tradizione che fu soprattutto fonte di lavoro per i pescatori monfalconesi tra gli anni Venti e Settanta. Non esiste una bibliografia in materia, ma è importante reperire informazioni dagli uomini che parteciparono a quelle giornate. Alcuni vecchi pescatori non ci sono più, ma chi ancora la ricorda deve far sì che questa storia non scompaia del tutto. La “tratta dei cefali” non solo rammenta una particolare tecnica per pescare un'enorme quantità di pesce nelle basse e calde acque del litorale monfalconese, ma permette di disegnare una geografia del bacino di Panzano diversa dall'attuale. Anche se il primo scavo del cosiddetto “Porto della Rosega”, verso le bocche del Timavo, risale al 1825, furono i primi anni del Novecento che videro l'importante opera di dragaggio dei fondali del golfo di Panzano per creare il bacino adatto ad alloggiare le navi costruite dal Cantiere. Tale operazione danneggiò l'ambiente nel quale i pescatori della zona erano soliti svolgere la loro attività e intorno agli anni Venti come ricorda l'ittiologo Sergio Paradisi, autore di importanti contributi sull'argomento furono loro concessi i diritti di pesca all'interno del nuovo bacino, dando inizio così alla tradizione della tratta. Il punto preciso dove aveva luogo era lo specchio d'acqua racchiuso dalle rive delle attuali Società canottieri Timavo, della Società velica Oscar Cosulich, del Silos e, dal lato opposto, dell'Hannibal. La zona era paludosa e l'acqua poco profonda, con una sorta di isoletta all'altezza delle officine aeronautiche del Cantiere. Quando giungeva dicembre i pescatori, costituiti in Cooperativa fin dal 1922, armavano barche e reti per dare vita a quella pesca miracolosa che permise a molti di loro di migliorare le proprie condizioni economiche. Danilo Doria, che partecipò alla tratta fin dal 1961, ricorda che la calata della “tratta” avveniva dopo che gli esperti pescatori, visto l'oscurarsi del colore dell'acqua, capivano in quale particolare tratto si erano rifugiati i banchi di pesce. Vista l'ampiezza della zona da circoscrivere con la rete, questa veniva divisa a metà all'altezza dell'isolotto tra l'Hannibal e le officine aeronautiche e veniva usata un'ulteriore rete, la trezza, che veniva calata in acqua con una pesante catena. Dopo la calata, i numerosi uomini a terra cominciavano a tirare la rete in secca, e molte delle fotografie esistenti presso il Consorzio culturale del Monfalconese testimoniano l'impegno lavorativo degli iscritti alla cooperativa, suddivisi in soci padroni e lavoranti. Altri pescatori, in piedi su piccole barche, controllavano il lato a mare delle reti. Quando il pesce era finalmente imprigionato veniva caricato su chiatte, mentre i carri, a terra, aspettavano a ridosso degli argini pronti a trasportare il pescato nei mercati. Questo veniva misurato a vagoni, ognuno dei quali corrispondeva a 100 quintali, Nel 1953 furono catturati 24 vagoni di pesce. I cefali del Monfalconese erano molto pregiati e andavano ad arricchire le tavole imbandite del Natale. La memoria della tratta sembra scomparire con i primi anni Sessanta, ma diverse testimonianze (tra cui lo stesso Paradisi) la prolungano fino agli anni Settanta. E' una tradizione che non potrà mai essere ripresa, perché la zona del golfo in questione è ora tutta scavata per permettere alle navi di accedere al silos. Le banchine si sono trasformate negli attracchi dei noti centri velici locali e i cefali non possono più rifugiarsi in quelle acque basse e tiepide dove un tempo trovavano rifugio dall'antistante gelido mare invernale. A testimoniare questa un tempo florida attività economica rimangono le memorie degli ultimi pescatori e le immagini conservate nella fototeca del Consorzio culturale, di cui offriamo alcuni esempi nelle pagine che seguono.
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